Tra qualche ora sarò a parlare di “nuove forme dell’abitare” all’incontro su crisi economica e opportunità per le famiglie, organizzato dal Centro per le famiglie del Comune di Modena.
L’incontro è in pieno centro storico, in piazzetta Redecocca, una delle piazze della mia città che preferisco, con le scale larghe che salgono morbide in circoscrizione su un lato, il portico basso dall’altro, le case popolari, due trattorie storiche che d’estate mettono i tavolini fuori, gli alberi inaspettati nel mezzo. Piazzetta Redecocca sembra un cortile di una volta, aperto ma protetto, dove ci si può sedere a fare due chiacchiere con i vicini, dove si può giocare a pallone o, con un gessetto rubato a scuola, disegnare anche la settimana e poi, su un piede solo, saltare da una casella all’altra, senza pestare le linee tracciate per terra.
Mi ricordo che sei o sette anni fa, per questioni di lavoro, mi è toccato di fare il rilevamento dei flussi pedonali proprio di piazza Redecocca. E mi ricordo benissimo che un sabato pomeriggio (da sempre giorno di massima affluenza per il centro cittadino), circa di questa stagione, sarà stato fine settembre, un pomeriggio di sole come oggi, mi sono seduta in piazza su una panchina, con un quadernino e una penna in mano, per fare una crocetta tutte le volte che una persona (a piedi, in bicicletta e in macchina) fosse passata di lì. Beh, quel pomeriggio ho contato più piccioni che esseri umani. Questa è piazzetta Redecocca, e non penso che l’incontro su crisi economica e famiglie possa incidere più di tanto sui flussi pedonali..
Per diffondere il mio pensiero oltre la materialità di piazzetta Redecocca, ecco in sintesi un’anteprima di quello di cui parlerò tra poco. Se poi a qualcuno interessa qui ci sono anche le slide del mio intervento.
Partirò dalla crisi economica e dalle conseguenze economiche sulle famiglie (aumento della disoccupazione e precarizzazione del lavoro; calo del potere di acquisto, del tasso di risparmio e della spesa per consumi; aumento dei costi energetici, stretta creditizia), in una situazione generale di progressivo invecchiamento della popolazione, di nuclearizzazione delle famiglie e di forte immigrazione.
Partirò dalla crisi economica per riflettere su una crisi più generale nella quale siamo sprofondati negli ultimi decenni: la crisi della socialità, delle relazioni, il trionfo dell’individualismo sociale, dell’egoismo condominiale (che in Italia provoca a una rissa ogni dieci minuti), la sconfitta dello spazio pubblico collettivo, dell’idea di polis.
Partirò dalle crisi per sottolineare con gioia un ritorno di interesse per una dimensione comunitaria della vita, una dimensione comunitaria non ideologica ma pratica, dove il Noi vince sull’Io, in primis per convenienza e comodità.
Sulla condivisione e sulla mutualità sono nate esperienze, oggi sempre più diffuse e in forte crescita, in tutti gli ambiti della nostra vita: dal co-housing al co-working, dagli orti urbani ai gruppi di acquisto solidale, dal car-sharing al couchsurfing, dal baratto al crowdfounding.
Parlando di “abitare”, già nel 1932 la sociologa premio Nobel Alva Myrdal, metteva in luce l’irrazionalità delle residenze isolate “dove venti donne preparano le loro polpette in venti piccole cucine mentre venti bambini giocano soli nelle loro camerette”, gridando i benefici di un modello alternativo di abitare collaborativo, che prevede la condivisione di spazi, tempo, impegno, risorse, attrezzature, valori, energie, nell’assoluto rispetto della privacy e dell’autonomia individuale.
Da allora questo “nuovo modello di vivere vecchio come il mondo”, come recita lo slogan dell’associazione CoAbitare di Torino http://www.coabitare.org, è stato, soprattutto nel Nord Europa, molto sperimentato, è cresciuto, si è sviluppato e si è diversificato, pur mantenendo una matrice comune.
Il co-housing, come ha magnificamente espresso ieri il maiuscolo Carlo Olmo nel suo intervento a Bologna, è una risposta intellettuale alla crisi della socialità delle parti più alte della società, la manifestazione del bisogno di luoghi di relazione sociale, in cui lo stare insieme porti anche ad una crescita culturale, il tentativo di piccole comunità di persone di ricostruire uno spazio pubblico che non c’è più, partendo dalla condivisione di alcuni valori collettivi, che per definizione non valgono per tutti, ma sono le regole di quel particolare co-housing, che quindi è diverso da tutti gli altri.
Su questo sfondo, agiscono, nel nostro caso, due fenomeni diversi ma complementari che servono per spiegare la declinazione irughegiana dell’abitare collaborativo: il lusso democratico e un diverso welfare.
Lusso democratico, come lo ha felicemente definito l’amico architetto Federico Zanfi, spiega da cosa è nata l’idea di Irughegia: da un desiderio di stare insieme non ideologico, ma ancora una volta pratico, di famiglie con bambini piccoli, che decidono di stare insieme per rispondere a bisogni a cui prima si rispondeva singolarmente, per affrontare costi non più sostenibili da soli, per godere di servizi che individualmente non ci si potrebbe più permettere. E che pensano che abitando vicini sia più facile raggiungere gli obiettivi del loro stare insieme.
La messa in discussione del sistema nazionale dei diritti sociali e la diminuzione palpabile dei servizi alla persona a livello macro, associate alle caratteristiche di condivisione, partecipazione, mutualità che a livello micro connotano gli irughegiani, ci ha portato ad approfondire nuove modalità di progettazione e gestione di servizi collettivi aperti al territorio, che vorremmo sperimentare dal basso proprio ad Irughegia, con un sistema nuovo e volontario di auto-organizzazione sociale, promosso da cittadini attivi e intraprendenti, secondo un diverso modello di welfare.
Io sono convinta che Irughegia possa diventare un’alternativa (che oggi a Modena manca) interessante per molte famiglie, ma perché questo succeda c’è bisogno che si realizzi, per far vedere le proprie potenzialità e per sfatare tutta una serie di falsi miti che avvolgono ancora l’abitare comunitario. Ci manca poco, ma quello che ci manca è fondamentale, per provare, innovare, sperimentare, parole che a Modena sembrano essere sparite non solo dal vocabolario ma anche nei fatti. Noi irughegiani non facciamo niente di illegale, non vogliamo fare la rivoluzione, non siamo pericolosi, siamo giovani (ancora per poco), ottimisti e intraprendenti, ci serve un supporto (e chi ce lo può dare lo sa benissimo!) perché un esperimento piccolo possa provare a diventare un modello grande, il più economico, sostenibile inclusivo possibile.
colonna sonora: C’è crisi, Bugo
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