Il liceo d’arte di Reggio Emilia mi è davvero piaciuto: in pieno centro storico, di fronte al teatro Valli, è una scuola viva, dove video e grafica computerizzata si mescolano alle tradizioni artigiane di ceramica e pittura e in cui anche i muri trasudano cultura. Il lungo corridoio che porta alle aule si arrotola intorno al cortile interno, e dalle grandi finestre con gli infissi di legno un po’ scrostato, spuntano alberi secolari.
L’altra mattina ci sono entrata per assistere alla presentazione del Compagnoni, un quartiere popolare della città interessato da un mega progetto di riqualificazione urbana, per il quale il Comune chiede ai ragazzi del liceo d’arte un contributo di idee per rigenerare lo spazio urbano.
Entro nella piccola biblioteca che ospita l’incontro mentre una signora sorridente con gli occhi furbi racconta che tutti nasciamo in un luogo, cresciamo in un cortile, ci allontaniamo da adolescenti, magari andiamo ad abitare lontano, ma ci rimane sempre addosso un senso di appartenenza per il luogo dove siamo nati. Mi torna in mente il libro di Ozpetek Rosso Istanbul che ho appena finito e che inizia così: “È una serata calda a Roma, ma so che mi accoglierà un vento fresco nella città che mi aspetta: Istanbul. Dove mi aspetta la mia vecchia casa. La villa antica e bianca in cui sono cresciuto e che ho lasciato, e non avevo ancora diciott’anni. Ma in un qualche modo, sempre casa”.
Passando da Rosta Nuova al Villaggio Stranieri, da via Roma al Foscato, dal Villaggio Architetti al Compagnoni, la signora, con parole appassionate, ripercorre la storia dei quartieri popolari di Reggio e racconta l’idea del quartiere come territorio chiuso, da difendere, una monade autosufficiente da cui ci si può anche permettere di non uscire mai, come succede ancora a tanti anziani per i quali i confini del loro quartiere sono una sorta di moderne Colonne d’Ercole, oltre le quali finisce il mondo; un mondo che si limitano a guardare dalla finestra, davanti alla quale sostano ore intere, ad osservare da lontano il ritmo della vita che scorre.
I quartieri popolari sono nati per liberare il centro storico, da sempre luogo del potere e della ricchezza, dai poveri: i ladri di galline, le prostitute, gli zingari e il resto della feccia che un tempo abitava via Roma, dove i fascisti passavano con i manganelli con scritto sopra “disinfettante” e che poi, abbattute le vecchie casupole che li ospitavano, sono stati deportati al Compagnoni, costruito apposta, in campagna, lontano da tutto e senza niente intorno (a parte le case, non vengono costruiti né negozi, né scuole, né biblioteche, né campi sportivi o altri servizi di vicinato).
Nonostante questo il Compagnoni diventa un quartiere vivace, colorato, fatto di gente sì povera ma anche orgogliosa e appassionata che continua a vivere insieme come nelle vecchie famiglie patriarcali, una vita collettiva che cresce in strada, caratterizzata da un forte senso di appartenenza e solidarietà; una vera comunità dove la gente, solo per il fatto di esserci, esercita un potente controllo implicito, stempera le tensioni, fa sentire tranquilli e protetti. Perché relazioni sociali e violenza sono inversamente proporzionali; e, come dice un proverbio africano, “ci vuole un villaggio per crescere un bambino”.
All’opposto dei moderni condomini borghesi, con grandi appartamenti in cui la gente si è trincerata dentro o della moderna architettura asociale delle ville esclusive, protette da muri di cinta che non permettono di vedere dentro ma neanche fuori, al Compagnoni le case sono piccole perché la vita è fuori, è una pratica collettiva da fare insieme, in strada.
Anche se le nuove case hanno standard qualitativi elevati, la concentrazione nel quartiere di oltre 1500 persone provenienti da realtà sociali fortemente degradate non permette la rigenerazione dei residenti, ma anzi amplifica il processo di marginalizzazione degli abitanti e configura il Compagnoni sempre di più come un ghetto impossibile da gestire e anti economico. A questo proposito Turner, filosofo dell’edilizia abitativa, grande conoscitore delle “città costruite dai poveri” in America Latina e strenuo difensore dell’abitare autogestito (tema tanto caro anche ai ragazzi del Sottotetto che avevano proposto un bel progetto di autorecupero per il Compagnoni), già negli anni Settanta nei suoi libri Freedom To Build e Housing by People, sosteneva che la soddisfazione di chi abita una casa non è necessariamente collegata all’imposizione di livelli di qualità, perché l’abitazione non è ciò che essa è, ma ciò che essa fa nella vita della gente: e ciò che la gente esige non si misura solo in termini di efficienza energetica, disposizione delle finestre, spessore dei muri, ma soprattutto tramite il grado di accessibilità a parenti e amici, alla comodità ai servizi, alla facilità di raggiungere il posto di lavoro, agli spazi di socialità, tutti fattori molto più umani che tecnologici, fondamentali per raggiungere il benessere individuale e sociale di un quartiere.
Tornando al Compagnoni, con il passare degli anni, i cinquecento alloggi pubblici costruiti negli anni Sessanta, sui quali non vengono fatti mai interventi di manutenzione, diventano anche esteriormente sempre più degradati, accentuando la nomea di Bronx di Reggio Emilia che è stata affibbiata al quartiere. Per migliorarele condizioni abitative e urbanistiche e garantire una maggiore vivibilità alla zona, il Pubblico (Comune ed Acer) decide di intervenire con un complesso progetto di riqualificazione urbana iniziato nel 2004 e che dovrebbe terminare nel 2015. In soldoni, in mezzo a tantissime cose migliorative come spazi verdi, percorsi pedonali, riduzione del traffico, una nuova piazza sulla quale si affacciano negozi e un centro polifunzionale per favorire aggregazione e socialità (e anche per permettere tutti gli interventi migliorativi) si decide di abbattere circa due terzi delle vecchie case pubbliche, che in parte verranno ricostruite.
La demolizione, per la gente del Compagnoni, è un trauma – continua a raccontare la signora con gli occhi furbi a una platea di adolescenti attentissimi – perché sradica le persone dalla loro vita, le disperde, le sistema temporaneamente in altre zone della città, mina l’identità della comunità che si era creata. E a me, mentre la ascolto, torna di nuovo alla mente Rosso Istanbul “Si lasciano mai le case dell’infanzia? Mai: rimangono sempre dentro di noi, anche quando non esistono più, anche quando vengono distrutte da ruspe e bulldozer, come succederà a questa”.
Per salvare dalle ruspe la storia del quartiere, il Comune ingaggia il Teatro dei/nei Quartieri, un gruppo di artisti che, coinvolgendo gli abitanti, interviene prima delle demolizioni per portare via quello che non si può trasportare: i muri, la vita vissuta, quello che si vede dalla finestra, fotografati un attimo prima di essere abbattuti e poi trasformati in carte da parati, tovaglie, tende e altri oggetti che si possono riprodurre all’infinito e per sempre, tanto che adesso il Compagnoni è un quartiere che può entrare in una casa.
L’immaginario da Bronx del Compagnoni è molto diverso da quello conosciuto e riportato dagli artisti del Teatro dei Quartieri, che fanno con i residenti un lavoro profondo che rafforza la coesione sociale e li lega ancora di più alle sorti del loro quartiere. Adesso che la ricostruzione è in fase avanzata e molti vecchi residenti sono tornati ad abitare al Compagnoni, sarebbe interessante indagare come è cambiata la loro qualità dell’abitare e da che cosa dipende per loro l’abitabilità, derivante dall’interazione tra casa, quartiere e usi che ne fanno. Ma questo in un’altra puntata.
PS: Grazie a Agnese, che mi ha presentato il Compagnoni, mi ha raccontato la sua storia e mi ci ha pure portato in gita, in un pomeriggio reggiano grigio come la pioggia fitta che ci ha fatto compagnia.
Nota: La fotografia raffigura l’interno di un appartamento del Compagnoni in fase di demolizione ed è stata scattata da Lorenza Franzoni, Teatro dei/nei Quartieri.
colonna sonora: Cioccolato IACP, Offlaga Disco Pax
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