La mia giornata oggi inizia in auto, come quella di tanti altri, che la macchina, a differenza di me, la devono usare tutti i giorni. Ci metto mezz’ora a fare gli ultimi cinquecento metri che mi separano dall’entrata del casello di Modena Nord.
Mentre ascolto tra l’insofferente e l’avvilito Virgin Radio e nella quasi immobilità dell’avanzare alterno freneticamente i piedi sui pedali di frizione, acceleratore e freno, come se fossi una suonatrice d’organo impazzita, penso all’attualità del “paradosso di Illich”: già all’inizio degli anni Settanta Illich sosteneva come le auto, inventate per velocizzare gli spostamenti e migliorare il confort del viaggio, si fossero rivoltate contro gli uomini, i quali avevano finito per trovarsi intrappolati ogni giorno dentro quelle scatole di latta. La macchina aveva preso il sopravvento sull’uomo, creando più distanze di quante riuscisse a eliminarne e le persone, invece di risparmiare tempo, si erano trovate chiuse in un’automobile a perderne tantissimo. Dico questo perchè mi piacciono i fuori programma, anche quando scrivo. E fare una digressione è come scegliere una strada che non sai bene dove porta quando sai benissimo che di fronte a te ce ne sarebbe anche un’altra molto più diretta e facile.
Però pensandoci bene questa storia delle macchine qualcosa a che fare con quello che voglio raccontarare ce l’ha: Illich era un sostenitore di quella che lui chiamava la “società conviviale”, una società dove gli strumenti moderni prodotti dall’era industriale sono sottratti agli specialisti che li tengono sotto controllo e restituiti alla collettività, in modo che ciascuno possa utilizzarli per realizzare i propri progetti. L’intuizione di Illich è molto simile alla critica al concetto di monopolio radicale che Turner, il più eloquente e autorevole difensore dell’abitare autogestito, ha applicato all’abitare. Turner scrive negli stessi anni di Illich che il monopolio radicale è un meccanismo di tipo sociale che ha reso la gente incapace di fare da sé, sottraendo uno dei bisogni fondamentali della vita (la casa) alla definizione di chi lo vive (gli abitanti).
Ma la sto ancora prendendo troppo alla lontana. Mi rimetto quindi in macchina e dopo un’oretta di autostrada mi ritrovo immersa in un paesaggio strettamente padano, dove l’orizzontalità e la piattezza dominano su tutto, in una campagna in cui la vista può correre veloce dietro un orizzonte che non smetti mai di vedere ma non riesci mai a raggiungere.
La pioggia di ieri ha lavato anche la nebbia e i colori sono saturi quasi come nelle fotografie di Franco Fontana. Parcheggio davanti al muro di mattoncini antichi cementati in bianco che delimita quella che un tempo deve essere stata una fiorente corte colonica, in cui probabilmente abitavano i braccianti che coltivavano il mais nei campi intorno. Dal cancello si vede una grande aia, ghiaino bianco per terra e in mezzo un bel prato delimitato da due file di alberi adesso spogli. Intorno le case, una porta accanto all’altra, intonaco rosa antico, persiane e porte verdi, tutte basse uguali: pianoterra e primo piano, all’interno una scala che porta alle camere da letto, dietro il giardino, separato dalla sala da una grande vetrata.
In queste case vivono le quattordici famiglie, la maggior parte con bambini, che animano l’ecovillaggio Lumen, una “sperimentazione pratica di un modello di vita collettivo rivolto al benessere e all’eco-sostenibilità”, come si legge sul loro sito internet o “un prato con dei bambini che giocano e le loro case tutte intorno”, come mi ha spiegato Anita che ha nove anni e abita qui da sempre.
Per il mio lavoro di ricerca Lumen è un’esperienza molto interessante da diversi punti di vista: innanzitutto ha una storia consolidata, che viene ripercorsa nel libro scritto in occasione del ventunesimo compleanno dell’ecovilaggio; seconda cosa è un caso di successo, a differenza di tante altre esperienze di comunità intenzionali che si sono sgonfiate dopo la prima fase di entusiasmo, il cui andamento in statistica verrebbe ben rappresentato dalla classica curva di Gauss a forma di campana, dove, dopo un periodo di crescita sostenuta, si raggiunge il punto massimo, dopo il quale comincia il declino.
Un ulteriore motivo di interesse è che Lumen si regge su un originale modello di economia interna autosostenibile: negli anni l’ecovillaggio ha sviluppato una serie di attività aperte all’esterno (dalla scuola di naturopatia, alla Wellness Academy ai corsi di cucina naturale), che hanno costruito posti di lavoro per gli abitanti e che assicurano entrate sufficienti a pagare altri abitanti impegnati a offrire servizi specifici per la comunità, come la mensa interna, l’asilo e l’homeschooling per i bambini delle elementari. In questo modo praticamente tutti gli abitanti di Lumen ricevono uno stipendio per il loro lavoro – che sia rivolto agli esterni o per i residenti – che, sommato al lavoro volontario che ciascuno svolge (nella manutenzione del verde, nella pulizia delgi spazi comuni, nella raccolta della legna con cui viene alimentato il riscaldamento), consente un equilibrio economico sostenibile.
Per fare un esempio concreto, Giacomo, un ragazzo sardo che è il responsabile della cucina comune, ogni mese riceve da Lumen 800 euro per il suo lavoro di preparazione dei pasti e di gestione degli ordini della dispensa. Questi soldi in parte sono ottenuti dalle entrate dei corsi di cucina naturale che sempre Giacomo tiene all’esterno e che confluiscono nel bilancio di Lumen. Come mi ha raccontato lui stesso, questi 800 euro non servono per sostenere spese tipiche di chi abita in appartamenti tradizionali, visto che vivere a Lumen offre un pacchetto di servizi che coprono i costi del cibo, delle utenze, le spese condominiali e quelle per i servizi di cura dei bambini.
Da una stima realizzata qualche mese fa dagli abitanti per quantificare i benefici economici di vivere in ecovillaggio, da un confronto con l’indagine Istat sui consumi, si scopre che ogni famiglia arriva a risparmiare ogni mese circa mille euro, grazie a servizi quali acquisti condivisi, utenze comuni, servizio mensa, scambio di vestiti, condivisione di auto.
A questo modello economico particolare corrisponde una struttura organizzativa piuttosto complessa, articolata in diverse forme giuridiche e orchestrata in modo da riuscire a gestire la vita comunitaria: Lumen infatti è un’associazione che si occupa prevalentemente delle attività formative rivolte all’esterno, ma anche una cooperativa di produzione e lavoro che gestisce progetti editoriali, la vendita di prodotti naturali e le attività svolte in diversi centri benessere, oltre a essere da qualche anno una cooperativa a proprietà indivisa che amministra gli alloggi e un network di persone che organizzano le attività educative rivolte ai bambini, dall’educazione parentale al servizio di asilo modello tagesmutter.
All’ingresso mi accoglie Federico, 38 anni di Crema, che si è trasferito nell’ecovillaggio insieme a sua moglie Valentina e alla loro figlia Matilde ormai quattro anni fa. Dopo aver transitato in alcuni appartamenti condivisi, ha contribuito a ristrutturare una porzione di casa della corte dove adesso vive, per scelta, insieme alla famiglia di Floriana e Alessandro. La condivisione abitativa non è la regola, ma sicuramente si sposa bene con le motivazioni di carattere relazionale e comunitario che spesso accompagnano la scelta di vivere in ecovillaggio.
Nell’attesa di trasferirci nella homeschooling dove Federico insegna arte, beviamo un té seduti al bancone della sua cucina, autoprodotto con assi recuperate dai ponteggi dei cantieri edili; alle mie spalle c’è una lavagna nera con scritto il menù settimanale della colazione: frutta, latte di soia, pancake, succo Hurom, mix di cereali, pane con creme di verdura, marmellata, té, crema di riso, crepes. Colazione a parte, la cucina non è tanto usata, visto che i pranzi e le cene vengono consumati insieme nella mensa comune dall’altra parte dell’aia, tutti i giorni escluso il lunedì, quando ognuno mangia nel proprio alloggio, prendendo però dalla dispensa collettiva gli ingredienti: frutta e verdura soprattutto, ma anche farina, pasta e altri cereali, vista la predilezione degli abitanti per un’alimentazione naturale di tipo vegan. Dalle grandi finestre della sala entra una luce calda, che si infila fin dentro la mia tazza e si riflette sulle pareti chiare della stanza. Il té così illuminato mi sembra più buono del solito.
Oltre a insegnare arte ai bambini della homeschooling, Federico segue le questioni amministrative di Lumen, gestisce alcuni progetti speciali, tra cui quello in corso di realizzazione di una casa famiglia in cui accogliere ragazzi in affido e ha mantenuto anche alcuni impegni esterni, tra cui quello di vice sindaco del paese vicino.
Mentre parliamo entra Floriana, che si occupa dell’asilo, e poco dopo dalle scale sbuca Alessandro, vestito con un kimono bianco simile a quelli da judo, che alterna l’attività di grafico a quella di maestro di yoga. Più tardi conoscerò anche loro figlio Lucas, che frequenta l’homeschooling e condivide la camera da letto con Matilde, la figlia di Federico e Valentina.
Tra una tazza di té e l’altra, Federico mi racconta come si vive a Lumen, la procedura piuttosto articolata per entrarvi (“perché nella conoscenza serve gradualità, sia da parte di chi vuole entrare che da parte di chi accoglie”), il modello gestionale, basato sulla partecipazione e sulla valorizzazione delle abilità e dell’esperienza di ciascuno, e l’investimento comune sulla condivisione: oltre a mangiare insieme quotidianamente, sia a pranzo che a cena, la condivisione si esplica e nel modello economico, visto che quasi tutti lavorano all’interno di Lumen in stretta collaborazione l’uno con l’altro. Inoltre sono previsti dei momenti settimanali di incontro per discutere questioni pratiche, che nell’ultimo anno in via sperimentale sono stati organizzati separatamente tra uomini e donne, e ogni tre mesi una giornata comune durante la quale i trenta adulti dell’ecovillaggio fanno il punto della situazione e affinano la loro visione comune del vivere insieme. Al “fare gruppo” sono dedicati anche momenti di svago collettivi, come brevi vacanze in estate e inverno in cui ritrovarsi fuori dal contesto abituale ed esplorare dinamiche diverse da quelle quotidiane.
Di tutti i discorsi che sento mi colpiscono in particolare le riflessioni di Federico sul modello familiare, molto diverso da quello a cui tutti oggi siamo abituati. In sintesi mi sembra di capire che i cambimenti maggiori siano tre: il primo riguarda il tema della conciliazione di vita e lavoro, in quanto a Lumen si lavora dove si vive, e questo fa sì che si sia sempre vicino alla famiglia; il secondo è legato alla presenza di tante persone che abitano vicine a cui appoggiarsi per esigenze pratiche, ma anche per un supporto emotivo, cosa sempre più rara tra vicini di casa; il terzo infine ha a che fare con il concetto di “comunità educante” che nasce dal vivere con le “porte aperte”, in un ambiente basato sulla condivisone anche ideale di stili di vita. A Lumen in qualche modo si realizza l’auspicio del padre del cohousing, che ha progettato Skråplanet con in testa l’idea che “ogni bambino dovesse avere cento genitori”. E dal vivo la cosa è impressionate.
Sicuramente il “modello Lumen” è affascinante, per una mamma come me, che ogni giorno prova a destreggiarsi tra lavoro (poco retribuito), lavatrici, quotidiano dilemma su cosa preparare da mangiare e accudimento dei tre piccoli Mongi boys.
D’altra parte, mentre la cucina comune e il servizio mensa mi sembrano un benefit intergalattico, capace di abbattere drasticamente il livello di stress di una qualsiasi mamma italiana, sull’educazione parentale non sono così convinta, nonostante le mie frequentazioni più o meno solide con gruppi montessori, pedagogia staineriana e scuole libertarie: mi sembra che la scuola pubblica sia uno dei pochi baluardi di uguaglianza non ancora crollati, e che ogni bambino dovrebbe poter frequentare prima di tutto per conoscere la diversità e poi eventualmente scegliere più consapevolmente l’omeopatia, lo yoga o un’alimentazione vegetariana.
Parentesi in difesa della scuola pubblica a parte, partecipare a una lezione con i bambini dell’homeschooling è stata un’esperienza molto bella, dalla quale ho anche imparato come si realizza un fumetto. E durante la quale ho preso accordi per una partita di calcio, che abbiamo giocato adulti e bambini insieme dopo pranzo nel prato in mezzo alla corte.
A Lumen, dove hanno smantellato i monopoli radicali e le persone si sono riappropriate del valore d’uso delle cose, sottraendo alla logica dello scambio di mercato la casa, la scuola, il cibo e la salute, una partita di calcio però rimane sempre una partita di calcio. Quindi, visto che la mia squadra ha perso di un goal, a Lumen prometto che tornerò presto, magari con i Mongi boys, che con i piedi, a forza di partitelle al parco, stanno diventando bravini..
colonna sonora: Before we knew the cross, Ecovillage
PS: Ringrazio di cuore Federico, Giacomo, e i due Marco per il tempo che mi hanno dedicato. A Giovanni, Jacopo e Mahel, che ho conosciuto a scuola e reincontrato da avversari sul campo da calcio, ne approfitto per chiedere per iscritto la rivincita. Infine, per tutti quelli che sono arrivati fin qui, spero che il mio racconto abbia fatto capire loro qualcosa in più di quello che sapevano di cosa significa vivere in ecovillaggio. E mi auguro che che abbia anche stimolato domande e riflessioni sul modo di vivere e di abitare di ciascuno di noi.
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