Martedì scorso (29 maggio, ndr) la terra è tornata a tremare. Forte, più forte dell’altra notte (20 maggio, ndr).
Luca era uscito presto quella mattina, quando noi dormivamo ancora tutti. Un po’ dopo ci siamo alzati io e Davide, abbiamo mangiato una tazza per uno di yogurt mescolato a orzo in polvere e zucchero, bevuto un bicchiere di tè, ci siamo lavati e vestiti leggeri – che finalmente sembra sia arrivato il caldo – e siamo usciti veloci e silenziosi, attenti a non svegliare Michi e Vangio, tutti e due ancora a letto, un po’ malatini, lasciati in custodia a Patt-woman, la super nonna tuttofare, arrivata in soccorso da Bologna sulla sua Patt-mobile.
Fuori l’aria era calda e un po’ pesante, preludio della cappa estiva che ciclicamente avvolge Modena e soffoca chi ci abita. Da casa all’asilo, è stato un inseguimento a ripetizione, una gara e controgara a chi, tra me e Davide, faceva girare più veloci le gambe per superare la bicicletta dell’altro: io sul mio bolide giallo “made in Comacchio” equipaggiato con doppio seggiolino porta bimbi, parabrezza rattoppato e campanello arrugginito, Davide sulla sua mini bici grigia e rossa, eredità ammaccata della cugina più grande.
Salutato Davide, ho attraversato Modena a gran velocità per tentare il record: timbrare il cartellino prima delle nove. Arrivata a destinazione, sono scesa dalla bicicletta al volo, l’ho legata al palo sotto la Municipality Tower e sono entrata di corsa, con il cartellino tra i denti, per tentare l’impossibile. Il marcatempo ha suonato alle 8,58, addirittura con due minuti d’anticipo. Ho salutato l’assessore che stava uscendo con un gran sorriso di soddisfazione stampato in faccia, la fronte sudata e una immaginaria medaglia d’oro al collo e mi sono avviata spedita su per le scale, diretta al mio ufficio, al quinto piano.
Avevo fatto appena in tempo a togliermi lo zainetto, sedermi e accendere il computer che il palazzo ha iniziato a ondeggiare, il pavimento a sussultare, le colonne a scuotersi, i vetri a tremare. Un rumore sordo e primordiale, misto a urla terrorizzate intervallate da inviti baritonali alla calma, accompagnavano quella scena apocalittica. A me è venuto in mente subito l’11 settembre, tutte quelle persone intrappolate sulle Torri gemelle, il panico generalizzato, la sensazione di sentirsi spacciati. La cosa più assurda, che mi fa ancora impressione a pensarci, è stata che mi sono sentita per la prima volta non davanti ad uno schermo, sicuramente coinvolta ma lontana da quelle immagini terribili, ma protagonista di quelle immagini, come se sulle torri ci fossi anch’io, in carne ed ossa, a sperare non si sa bene cosa con l’inferno intorno. Mentre mi sentivo in trappola sulle Twin Tower emiliane, mi sono ricordata che, dopo la scossa della settimana prima, ci avevano dato istruzioni di dove rifugiarci in caso di emergenza, e che quello era il momento di eseguirle. Ripararmi sotto la scrivania, per una claustrofobica di prima categoria quale sono, non mi sembrava l’idea migliore, il solo pensiero di ritrovarmi viva, sepolta sotto montagne di macerie ad aspettare che qualcuno mi “estragga”, mi terrorizza anche adesso che scrivo, a mente fredda, rifugiata in montagna da allora, lontano dalle scosse e dall’ansia palpabile della pianura ferita. E così, scartata l’opzione scrivania, ho ripiegato sulla ricerca del più vicino muro portante a cui ancorare braccia e speranza. Mi sono attaccata alla colonna e ho ballato con lei, pregando che quella musica devastatrice finisse in fretta. E invece è durata un’eternità, secondi infiniti che ho passato a occhi chiusi, spalle incurvate, ginocchia piegate a tentare di ripetere le tecniche respiratorie del pranayama imparate nei miei trascorsi yoga, a convincermi che l’importante era concentrarsi per abbassare la frequenza cardiaca e evitare un infarto, a pensare che forse era solo un incubo e che dovevo svegliarmi. Mentre ero così figurativamente rannicchiata, immobile e muta, alla mia colonna, a un certo punto, di colpo, la tempesta è finita, il silenzio ha riempito il vuoto, il palazzo si è fermato, la nausea da “mal di mare” rientrata.
Quel gigante che mi immagino abiti sonnacchioso sottoterra, la Nostra terra, probabilmente aveva solo cambiato fianco ed era tornato placido e mansueto a dormire, ignaro degli effetti rovinosi che i suoi movimenti, anche minimi, provocano a noi umani qui sopra.
A distanza di qualche ora, intorno all’una, il gigante è tornato a muoversi. Forse un prurito, forse uno starnuto, forse un crampo, tant’è che la terra ha tremato di nuovo, lasciandosi dietro altre macerie, distruzione, angoscia, lacrime e morte.
I movimenti del gigante sono imprevedibili, i suoi effetti pure, nessuno si sente più sicuro in casa, le strade sono intasate, i parchi della città affollati di gente disorientata, le linee telefoniche impraticabili, chi può infila qualcosa in fretta e furia in un borsone e fugge lontano (maledicendo il consumismo che ci ha riempito di cose, tanto inutili quanto difficili da selezionare), altri si attrezzano per passare la notte fuori casa, Decathlon in un pomeriggio finisce tutte le tende disponibili in magazzino, la gente parla solo di terremoto, la televisione trasmette solo immagini di terremoto, le prime pagine dei giornali sono piene di parole sul terremoto, Facebook e Twitter lo raccontano in tempo reale, più seguiti degli aggiornamenti dell’istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia.
Quand’ero piccola ho letto un libro di Roal Dahl, un bel libro divertente e colorato, intitolato Il GGG, che sta per il Grande Gigante Gentile. Tutte le sere, dopo il 20 maggio, quando vado a letto, cerco di convincermi che quello addormentato che abita qui sotto questo pezzo di Emilia piatta non può che essere un GGG, così dolce e buono che non farebbe male a nessuno..
PS: questo post l’ho scritto cinque giorni fa, il giorno dopo la scossa che ha fatto 16 morti nella bassa modenese, sbriciolando il duomo di Mirandola, distruggendo capannoni, danneggiando case, facendo dormire fuori oltre 200mila persone, in paesi devastati dal gigante del sottosuolo, tra San Felice sul Panaro, Medolla, Finale Emilia, Camposanto, Cavezzo, Novi, Cocordia e Mirandola naturalmente, la cittadina di Pico in cui tra l’altro sono nata anch’io.
L’ho scritto alla Peschiera, la vecchia casa di pietra, al limitar del bosco, circondata da prati inclinati, alberi di amarene, cataste di legno, caprioli e silenzio che Patt-woman e Màssolo-man, i nonni di Bologna, hanno affittato a oltranza sul nostro appennino. Sono sfollata qui, a venti minuti di sentiero da Sestola, con i miei tre Mongi-boys, per smarrire l’ansia, dormire tranquilla e restituire forza ai miei muscoli indolenziti dalla paura. So che in questi casi scappare non serve, che le scosse possono durare mesi e che dove e quando picchieranno nessuno lo sa e nessuno lo può prevedere. So anche che a Modena dopo poco avrei dovuto tornarci, che la mia casa è ancora al quarto piano e il mio lavoro al quinto, e che la Peschiera, nella mia vita, è solo una parentesi vacanziera. Ma so anche che a volte una boccata d’aria è quello che serve, un po’ di aria pulita con cui riempirsi i polmoni e ripartire, per smettere di sentire costantemente muoversi la sedia, ballare il pavimento, traballare il tavolo, per smettere di sentirsi continuamente in pericolo.
Lo pubblico oggi, tornata da poco in città, perché alla Peschiera – incredibile davvero in un mondo altamente interconnesso e nell’era dei social network – internet non arriva e neanche i cellulari funzionano.
Lo pubblico adesso, con le gambe ancora un po’ molli dalla scossa delle nove, poco prima di andare a letto, nel mio letto giapponese al quarto piano, sperando che il gigante del sottosuolo stanotte dorma tranquillo, perché sono stanca e vorrei proprio dormire tranquilla anch’io.
colonna sonora: The Final Countdown, Europe