Giovanni è il dirigente del Comune di Torino che si occupa di abitare sociale. L’ho incontrato l’altra mattina, insieme a una piccola delegazione emiliano-romagnola interessata a esportare da noi il modello delle coabitazioni solidali.
Arriviamo nel suo ufficio a due passi da piazza Castello alle nove e mezzo, ce ne andiamo che è ora di pranzo. La prima considerazione è sulla quantità di tempo che Giovanni ci ha dedicato, un tempo lungo e denso, non scontato, non dovuto, non usuale.
Giovanni ripercorre con tono appassionato la stagione della rigenerazione urbana, da dove è partita tutta le riflessione sulle politiche per l’abitare che si è sviluppata a Torino a metà degli anni Duemila e che col tempo si è consolidata in una costellazione di interventi che fanno del capoluogo piemontese un modello di intervento pubblico nel campo dell’abitare a livello nazionale. La seconda considerazione è stata sentire Giovanni presentarsi come architetto, per legittimare il fatto di aver lavorato ai vari progetti di riqualificazione urbana, ma subito dopo, con una manovra brusca, distaccarsi da quel background tecnico da cui anche lui proviene, per sottolineare come uno dei limiti delle politiche per l’abitare in Italia sia che sono troppo solo in mano ad architetti.
Sul concetto di distacco Giovanni è tornato quando ha spiegato la differenza che per lui c’è tra abitare sociale – quello che stanno provando a fare a Torino – e social housing, termine esploso con l’entrata in scena dei Fondi Immobiliari finanziati da Cassa Depositi e Prestiti che per Giovanni mi pare sia un sistema troppo lontano dagli abitanti per produrre oltre che case anche abitabilità.
Nel caso dell’abitare sociale la radice è quella della rigenerazione urbana, rispetto alla quale le esperienze più innovative avviate a Torino scontano una evidente dipendenza costitutiva. Conclusi i programmi pubblici di riqualificazione urbana, i quartieri popolari dove si era intervenuto anche in modo massiccio, investendo tante risorse, correvano il rischio di essere abbandonati. Per limitare il rischio si è intrapresa la strada dell’abitare sociale, con l’obiettivo di affiancare alla riqualificazione la rigenerazione. Infatti dopo essere intervenuti bene sul contesto fisico – gli edifici, le aree verdi, le strade – adesso bisognava intervenire sul software: gli abitanti.
Il passaggio dalle politiche per la casa alle politiche per l’abitare segna il modello di intervento scelto da Torino: la casa diventa un involucro tanto necessario quanto non sufficiente a innescare un processo virtuoso di rigenerazione urbana, che dipende anche da interventi più immateriali di accompagnamento sociale, creazione di comunità, reti di solidarietà, sostegno a sperimentazioni dal basso. Giovanni qui prende in prestito dalla matematica il linguaggio delle proporzioni per dire che l’abitare sociale sta alla rigenerazione urbana come la regola sta all’esperimento. La terza considerazione è stata scoprire che l’abitare sociale a Torino è diventato una regola, cresciuta sulla sperimentazione, importante ma conclusa, della rigenerazione urbana. Un passo avanti non da poco, rispetto alla stagnazione in cui versano tanti Progetti di Riqualificazione Urbana in Italia, in cui, in uno skyline di edifici ben tinteggiati, panchine pulite, altalene aggiustate, ci si è dimenticati delle persone che in quegli edifici abitano, che su quelle panchine si siedono e che su quelle altalene spingono i propri figli.
Questa idea mutuata all’esperienza della rigenerazione urbana, per cui il problema della casa viene superato dal tema dell’abitare è il primo principio alla base del modello torinese di abitare sociale. Da questa consapevolezza nasce la necessità di occuparsi in maniera coordinata non solo della casa intesa come involucro energicamente performante, ma anche degli altri pezzi dell’abitare: gli abitanti, le relazioni, la coesione sociale, il mutuo aiuto, le attività comuni, i servizi e tutto quello che intorno alla casa può crescere, e che in gran parte dipende dalla capacità di creare mix sociale e funzionale. Il secondo principio è che le politiche abitative devono riuscire a essere sostenibili anche economicamente: la domanda dalla quale Giovanni e i suoi colleghi sono partiti ragionando di abitare sociale era se il mercato potesse produrre azioni sociali di un certo rilievo. Nonostante l’incredulità dei massimi esperti della London School of Economics, Giovanni ci tiene a sottolineare che a Torino sono riusciti a rispondere in maniera affermativa. Hanno messo in discussione l’assunto del gotha economico d’oltremanica secondo cui “il mercato lo fa il mercato e il sociale lo fa il pubblico”, dimostrando che a volte il sociale lo può fare anche il mercato, come dimostra il modello delle coabitazioni solidali. Le coabitazioni solidali sono esperienze abitative promosse dal pubblico con il sostegno del privato sociale, nelle quali vengono inseriti in contesti abitativi difficili di edilizia popolare ragazzi giovani che, in cambio di uno sconto sull’affitto, offrono gratuitamente una decina di ore a settimana del proprio tempo a beneficio dei residenti, lavorando su abitabilità, accompagnamento sociale e relazioni di vicinato – insegnano. In queste esperienze, che ho raccontato in due post di inizio autunno (qui la prima puntata e qui la seconda), come in tutte le altre azioni di abitare sociale promosse dal Comune di Torino, alla base ci sono sempre le due idee di Giovanni, strettamente interdipendenti l’una dall’altra: occuparsi non solo di case, ma ancor prima di chi in quelle case ci abita, promuovendo mix sociale e funzionale, e farlo in un quadro di sostenibilità economica. La quarta considerazione è che Torino si distingue nel panorama italiano dagli altri Comuni per avere scelto di governare in prima persona il tema della casa, strutturando un ventaglio di politiche abitative articolate, il cui coordinamento rimane saldamente in mano pubblica. Un ventaglio che Giovanni ha chiamato “costellazione di soluzioni” perché l’altra consapoveolzza che ha sempre avuto la città è che non c’è una soluzione unica per tutti i problemi abitativi: i problemi sono molti e di conseguenza molte devono essere le soluzioni proposte, ognuna pensata per rispondere a un micro problema.
La quinta considerazione è che a Torino il tema dell’abitare sociale è stato affrontato in maniera fluida, all’interno di un processo lungo, non programmato rigidamente, ma frutto di una consapevolezza che è cresciuta con l’esperienza, adottando una strategia che in gergo scientifico si chiama “trial and error” e che in sostanza vuol dire procedere per tentativi, ammettere l’errore e imparare sbagliando. Diversamente da quanto succede normalmente nelle istituzioni pubbliche dove non si fa niente per paura di essere accusati di aver fatto la cosa sbagliata, Torino non ha avuto troppa paura e ha messo in piedi una politica abitativa “under construction”, aggiustando di volta in volta il tiro per avvicinarsi sempre di più all’obiettivo, nella consapevolezza che l’obiettivo non lo si raggiungerà mai. Ma d’altronde – dice Giovanni – “l’utopia non serve per arrivarci, ma per indicare la strada da prendere”.
Forse gli obiettivi saranno utopici, ma è reale la transizione verso un mondo in cui il possesso lascia sempre più spazio all’accesso, con tutte le implicazioni legate alla condivisione e alla temporaneità che l’accesso si porta dietro quando si parla di casa. Transizione che Torino ha metabolizzato dai primi anni Duemila, quando ha iniziato a investire sull’agenzia sociale per la locazione Lo.C.A.R.e, per poi iniziare a pensare modelli legati alla temporaneità, con cui affrontare meglio i cambiamenti demografici, sociali e lavorativi in atto: nascono in quel periodo le idee di albergo sociale, delle residenze temporanee, del condominio solidale, delle residenze collettive sociali che si sono concretizzate negli anni successivi e di cui Sharing, Luoghi Comuni, A casa di zia Jessy, Housing Giulia e le coabitazioni solidali sono alcuni esempi.
Sono tutti modelli caratterizzati dall’essere governati dal pubblico, con l’indispensabile collaborazione del privato sociale e un’attenzione centrale per la gestione sociale, considerata l’enzima necessario per far funzionare tutte le esperienze di abitare temporaneo. L’esperienza insegna che questi esperimenti funzionano ancora meglio nei casi in cui è disponibile una cucina comune o comunque quando vengono organizzati momenti di convivialità legati al cibo, perché “mangiare insieme fa comunità anche nel terzo millennio”. La sesta considerazione è che tante volte non bisogna sforzarsi di inventare niente di nuovo, ma si tratta di riproporre strumenti semplici e conosciuti, banali come mangiare un piatto di pasta insieme.
Se assumiamo, come nel caso del mangiare insieme, che la vicinanza fisica stimoli anche la vicinanza relazionale, tentare di riprodurre questa condizione è molto più facile in contesti omogenei – con tutti i rischi di produrre comunità chiuse – piuttosto che cercare di promuovere interventi abitativi basati sulla mixité. A Torino, città che alle sfide si è dovuta abituare per forza, ci hanno provato a realizzarla questa fantomatica mixité., cercando anche il modo di renderla stabile. E per farlo hanno puntato sulla qualità dell’abitare: hanno cercato di rendere sia l’hardware – fatto di mattoni – che il software – fatto di relazioni – di così buona qualità da essere gradito anche a chi paga. Dopo aver costruito qualità, trovare l’equilibrio giusto tra chi paga di più e chi paga meno è il secondo passaggio per far quadrare i conti dei piani finanziari e consentire a tutto il sistema di sostenersi. Perché il software relazionale funzioni è però indispensabile investire su accompagnamento e gestione sociale: come l’olio e l’acqua non appena smetti di sbatterli si separano, Giovanni ci spiega che la stessa cosa succede agli abitanti di contesti basati sulla mixité, se non li sbatti l’uno con l’altro con un percorso di accompagnamento sociale gestito dall’interno.
A questo proposito, a mio parere, il vero vantaggio competitivo delle coabitazioni solidali rispetto a molti altri interventi di social housing è che la gestione sociale è affidata a persone che nei contesti di edilizia popolare in cui intervengono ci abitano anche, ed è tutta un’altra cosa. Vuol dire essere tutti sulla stessa barca, costruire rapporti tra pari e innescare condizionamenti positivi più potenti, ma certe cose bisogna vederle dal vivo per crederci.
Mentre ci racconta di come funzionano concretamente le coabitazioni solidali, questo dirigente pubblico che si autodefinisce “il teorico del bicchiere mezzo pieno” ci introduce al suo sogno di costruire un “ordine nuovo” dove ognuno abbia secondo le sue necessità e contribuisca secondo le sue possibilità”. L’ultima considerazione è che sentire oggi un dirigente pubblico citare Gramsci è un’esperienza piuttosto rara. Non scontata, non dovuta, non usuale. Proprio come il tempo che ci ha dedicato Giovanni.
colonna sonora: Stagioni, Francesco Guccini
Nota: la foto è stata scattata in una delle cene collettive organizzate dai coabitanti di via San Massimo. Grazie a Isabella per essere così naturalmente disponibile. E in bocca al lupo agli amici di Sant’Arcangelo di Romagna e di Vignola che sono venuti a vedere da vicino le coabitazioni solidali torinesi. Domani chissà che qualcun altro vada a vedere le loro..