Ho appena ucciso un piccione.
Che poi scrivere appena in qualcosa che qualcuno legge quando gli pare o quando gli capita aprirebbe una dissertazione filosofica sul tempo e sugli effetti che la nostra percezione del tempo ha su di noi che mi sento già persa a pensarci.

Ma io davvero l’ho appena ucciso. 
Dico davvero perché l’ho ucciso veramente e anche perché l’ho ucciso proprio adesso.
Cinque minuti fa, per l’esattezza. Mi sono fermata a un lato della strada perché mi sentivo il vomito ma avevo lo stomaco troppo vuoto e così invece di vomitare ho dettato al mio cellulare queste cose, di getto, proprio come succede con il vomito.

Ero in bici.
Andavo piano perché avevo appena svoltato in una stradina stretta, col porfido per terra, e ero anche in contromano.
Mi sono trovata davanti tre piccioni, zampettavano tranquilli, intenti a recuperare briciole di cibo tra i cubetti di porfido, oppure semplicemente stavano osservando le venature del porfido, non so dire di preciso, in ogni caso zampettavano e tenevano gli occhi verso il basso, non penso per timidezza.

Erano tutti e tre molto simili, nessuno si distingueva per dimensione, piumaggio o altro. Erano tre piccioni ordinari, di media taglia e di media grassezza, penso anche di media età perché avevano quel tipo di piume che hanno i piccioni già adulti prima di diventare vecchi.

Non gli ho fatto paura, d’altronde stavano passando altre biciclette e c’era anche gente a piedi. È una zona di passaggio, in pieno centro, a ridosso della via Emilia, c’è sempre un gran via vai. C’è anche molta ombra perché il sole non riesce a infilarsi tra gli edifici e arrivare a terra o perché la strada è troppo stretta, o perché le case sono troppo alte o per una combinazione delle due cose.

La situazione era tranquilla, nessun segnale di allarme che ti facesse venire da sterzare all’improvviso o frenare o cose così, che succedono quando un piccione inizia a accelerare il passo e a muoversi un po’ a caso di qua e di là perché non sa dove andare e tu che stai passando vieni contagiato dal panico del piccione e cominci a guidare come un ubriaco che sta per cadere da un momento all’altro. 
A me non è capitato niente di tutto questo, non ho avvertito niente di strano e non ho cambiato traiettoria, perché sembrava proprio una situazione tranquilla, con piccioni tranquilli su una strada tranquilla.

E in tutta quella tranquillità, la ruota della mia bicicletta è passata con grande nonchalance e leggerezza sopra la testa di uno dei tre. 
Gli altri due hanno continuato a becchettare come se niente fosse, con lo sguardo basso sul porfido, indifferenti alla vita, alla morte e al loro amico piccione con la testa spiaccicata sul porfido, sottilissima e immobile accanto al corpo ancora gonfio di vita. 

A pensarci è una cosa incredibile, davvero da non credere. Chi non ha mai provato a investire un piccione con la bicicletta? E chi ci è mai riuscito? Investire un piccione deliberatamente è una cosa impossibile, il piccione non si sa come ma riesce sempre a spostarsi, magari all’ultimo secondo, ma si sposta sempre. 

È invece quando non ci pensi, quando ti stai facendo i fatti tuoi e investire un piccione è la cosa più lontana da te che tu possa immaginare, è proprio allora che il piccione senza dare alcuna avvisaglia allunga il collo davanti alla tua ruota e si fa schiacciare la testa. 
Lasciandoti addosso quel rumore tipico che fa una testa quando viene spiaccicata per terra.

Nella foto Icarus #23 di Francesco Fantoni

colonna sonora: L’uccello dalla piume di cristallo, Ennio Morricone

Ero lì che pedalavo su quelle curve ripide tra l’Emilia e la Toscana, con una bici pesante come la montagna che stavo salendo e il sole dritto in testa a ricordarmi che in agosto è tutto più difficile, che mi è venuto un pensiero.

E come succede spesso, almeno a me, i pensieri si alimentano di fatica fisica e la fatica fisica alimenta i pensieri e su per la Raticosa, quel giorno di agosto, era tutto un vorticare, di gambe e pensieri, su uno sfondo sfocato dal caldo.

Un caldo che sforma i contorni, allarga i margini, diluisce i colori, appiattisce le cose. Tutte, tranne le salite.

Infatti i miei pensieri erano tutti assorbiti dalla salita, dal suo concetto filosofico più che altro, mentre le mie gambe avevano più a che fare con la fisica della salita e tra gravità, peso e attrito nei muscoli non c’era spazio per altro.

Da queste parti, che poi sono le parti dove sono nati i miei nonni e dove io torno tutti gli anni da quando avevo tre mesi, tutto è ripido. La natura, le strade, la vita.

Pensavo così mentre pedalavo su per quella salita, cercando di domare il manubrio come il fantino un cavallo imbizzarrito, mentre il rumore pulito della catena che infilava uno per uno i denti della corona del cambio accompagnava i miei movimenti lenti e costanti.

Dopo una doppia curva a esse così ripida che la bici quasi si ribalta all’indietro, la strada spiana un po’, per farti prendere fiato, per farti alzare la testa e allargare lo sguardo sul panorama intorno.  

In quel momento di pace, mentre i miei quadricipiti liberati dalla tensione si gongolavano nella morbidezza del tessuto muscolare riossigenato, io, non so perché, ho iniziato a pensare a come si diceva “salita” in inglese e il pensiero era così intenso che non riuscivo a pensare a nient’altro e neanche a vedere nient’altro se non quella parola di cui avevo un inspiegabile bisogno di sapere la traduzione inglese. Come se i prati, i boschi, i campi di grano, il monte Rocca, la vecchia casa cantoniera abbandonata come tante quassù, il profilo dolce del monte Canda e tutte le moto che prepotenti o eleganti salgono per quella strada fossero state cancellate di colpo da un secchio di vernice bianca e davanti a me vedessi solo bianco e in quel bianco un buco nero di sei lettere pronto a risucchiarmi.

Così, senza smettere di pedalare e guidando con una mano sola, ho tirato fuori il cellulare dalla tasca sulla schiena della mia maglia da bici, ho aperto il dizionario online e digitato “salita” chiedendo la traduzione in inglese. “Strada in salita” si dice hill e come esempio c’era questo: “La salita/the hill per arrivare a casa mia /my house è molto ripida / so steep e per questo non uso quasi mai la bicicletta / a bike”.

Stracavolacci ho pensato! in questa frase c’è tutto, la salita, la ripidità, la bicicletta.. e casa mia. C’era anche casa mia su per quella salita ancestrale scavata nelle mie radici familiari come un fiume carsico, emerso impetuoso dall’asfalto appiccicoso di quell’agosto bollente.

E da lì un’altra ondata di pensieri, l’assonanza tra la salita hill e l’inferno hell, tra la ripidità steep e il videogioco sugli sport estremi Steep con i suoi tracciati verticali, le sue superfici scivolose, la velocità oltre il limite e l’ineluttabilità del cronometro. 

La ripidità è incosciente e vertiginosa, tagliente come i cocci aguzzi di bottiglia di Montale e affilata come le zanne dei cinghiali che vivono da queste parti.  

La ripidità è pericolosa e inebriante, non lascia scampo, non dà alternative, non prevede pause, non ti fa scendere. 

La ripidità è estrema e strema, pensavo stremata. 
(poi sono arrivata al pranzo di Ferragosto). 

colonna sonora: Estate, Antonio Vivaldi

Prologo 

Le imprese hanno sempre degli antefatti memorabili.
E quella che sto per raccontare non è da meno.

L’impresa è percorrere il crinale dal Lago Santo parmense al Lago Santo modenese in totale autosufficienza, dormendo tre notti in tenda e portandosi dietro cibo, acqua e tutto quello che può servire per tornare a casa (sufficientemente) sani e salvi. 

In tutto 63 chilometri e svariate migliaia di metri dislivello sullo 00, un sentiero leggendario a cavallo tra Emilia Romagna e Toscana, con incursioni anche in terra ligure. 

L’idea è di mio fratello A., 13 mesi meno di me e 20 centimetri in più, noto per un ruspante spirito d’avventura, un’incosciente mancanza di senso del limite, oltre che per le lunghe leve e il fisico asciutto.

La proposta l’ha fatta a mio marito, che non ho capito se non ha accettato per generosità (nei miei confronti) o paura (di mio fratello).

Sta di fatto che parto io, la riserva, ripescata all’ultimo dopo un andirivieni di tentennamenti sul parto io parti tu che mi ha visto alla fine vittoriosa.

Vittoriosa si fa per dire, visto che ho solo dieci giorni per prepararmi all’impresa, cinque dei quali mentre sto scrivendo sono già andati.

Come in una partita a scacchi, dovrò scegliere con cura quali mosse fare preventivamente per diminuire le possibilità che una volta che l’impresa sarà cominciata qualcosa vada storto. Per ora le mosse che ho fatto sono: svaligiare Decathlon (le imprese hanno sempre anche una vena consumistica); mettermi addosso, ai piedi, sulle spalle tutto quello che può essere inerente all’impresa e così agghindata allenarmi passeggiando per Modena; fare lo stesso anche su e giù per le scale del condominio (di notte, per non rovinarmi la reputazione), per ovviare alla morfologia troppo orizzontale della mia tanto amata quanto piatta città; procurarmi flaconcini di fiori di Bach e tubetti di Voltaren con cui sedare rispettivamente probabili attacchi di panico e sicuri dolori musco-articolari.

L’incognita maggiore è il tempo, perché a metà maggio può esserci freddo, il crinale in alcuni punti può ancora essere ghiacciato e soprattutto può piovere forte.

Pensandoci bene, non so se si possa definire un antefatto e neanche cos’abbia di memorabile, ma è così che sono andate le cose.

colonna sonora: Don Chisciotte, Francesco Guccini   

Rinvio

In alpinismo si chiama rinvio la “fettuccia ad anello fornita di moschettoni, usata dagli alpinisti per facilitare le manovre di assicurazione e scorrimento”; in questo caso invece con rinvio più prosaicamente intendo “spostamento ad altra data”, riferendomi alla sofferta decisione di rimandare la partenza causa allerta meteo di colore rosso caratterizzata da piogge torrenziali e esondazioni di eccezionale intensità.

Riporta in solaio gavetta, fornellino, tenda, sacco a pelo, rimetti a posto gli scarponi, svuota lo zaino, annulla le ferie, l’impresa è rimandata al primo giorno senza pioggia.

L’adrenalina che sale prepotentemente prima della partenza, precipitosamente scende e, complice la pioggia incessante, il preoccupante ingrossamento del Secchia e del Panaro e le notizie disastrose che vengono dalla vicina Romagna, anche l’umore ne risente. Seguono giorni bui, accompagnati da un very british “blue mood” interiore e dall’altrettanto british “it’s raining cats and dogs” che imperversa intorno. 

Con il passare delle ore, sempre connessa alle poco rassicuranti previsioni meteo, il mio corpo è dilaniato da quel gonfiarsi trionfante che precede gli inizi e da quello sgonfiarsi disilluso di quando gli inizi non iniziano, in uno sfinente movimento a fisarmonica che non produce nessuna musica. Penso agli alpinisti svizzeri che ho incontrato vent’anni fa in Patagonia bloccati al campo base del Cerro Torre che, come leoni in gabbia, passavano le loro giornate inebetiti in una specie di nulla eterno, aspettando una finestra di bel tempo per riaccendersi e partire per la scalata. Solo dopo un bel po’ di tempo ho capito che erano così concentrati sulla partenza e tesi per l’attesa che tutte le loro energie erano impegnate lì e che l’effetto ameba che facevano a chi come me li guardava da fuori era solo un’illusione ottica.

colonna sonora: L’attesa, Giorgio Gaber  

Let’s go

Dopo quasi una settimana di attesa e di conseguente “blue mood” le previsioni concedono un giorno di tregua. Decidiamo di partire. In un frenetico via vai tra casa e solaio riporto giù tutto quello che mi serve, riempio lo zaino, lo peso, sostituisco i pennarelli che avevo comprato per disegnare i paesaggi con una manciata di barrette energetiche, perché la tregua atmosferica sembra piuttosto corta e “il disegno dal vero” una possibilità remota.

La decisione di partire si concretizza nelle ore di un tardo pomeriggio ancora molto piovoso, mentre intorno a me si levano scudi preoccupati di amici e parenti che, sintonizzati sulle edizioni straordinarie dei telegiornali che mandano a raffica immagini di cae allagate e campi sommersi, cercano di dissuaderci. Con A. è impossibile, lui è serafico e convinto di non morire, tutto il resto è superfluo. Io molto meno serafica alterno entusiastica convinzione a tremante incertezza, in base alle telefonate e ai messaggi che ricevo. In famiglia dissimulo tranquillità, non voglio che i Mongi boys stiano in pensiero per la loro mamma. Nonostante questo Big Mongi – il marito di cui sopra – è nervoso e incredulo e al solito lui non dissimula, innalzando la tensione domestica. 

Mia mamma dalla finestra mi ricorda con voce da allarme rosso che ho messo al mondo tre creature che hanno ancora bisogno di me e mi snocciola modello rosario una dopo l’altra tutte le tragedie che sta causando la pioggia in Emilia-Romagna e tutte quelle ancora più tragiche che stanno per accadere. 

Alcuni mi scrivono che sono matta e tornano a fare le loro cose, altri mi scrivono di stare attenta e che andrà tutto bene e capisco che sono preoccupati per davvero. Questa attenzione inaspettata quasi mi commuove. Sento quanto alcune persone sono diventate importanti nella mia vita (in alcuni frangenti si sente molto di più che in altri). Sento l’impresa materializzarsi e i dubbi crescere. 

Chiamo A. alle dieci di sera, poco convinta di riuscire a convincerlo a rimandare ancora. Come previsto non lo convinco. Vado a letto, faccio sogni agitati, mi sveglio sudata, mi vesto al buio, bevo una tazza di te bollente, mi scotto il palato, controllo la lista per vedere se ho preso tutto – coltellino, borraccia, scaldacollo, tessera sanitaria, le Fisherman’s senza le quali non partirei per nessun posto, frontalino, occhiali, bastoncini telescopici, bussola, un libro se mi viene l’insonnia – ed esco di casa che inizia a fare luce. Metto in moto la macchina e parto per andare a prendere A. mentre penso a cosa mi sono sicuramente dimenticata. Inchiodo dopo poche decine di metri, lo zaino, cavolacci!! Ho preso tutto tranne l’unica cosa che non avevo scritto nella lista: lo zaino!! (con tutta la lista dentro). Mi viene da ridere, faccio tutta Sadoleto in retromarcia, corro su, lo zaino è rimasto sul divano, sposto con delicatezza il gatto L. che si è messo a dormirci sopra, saluto la gatta M. che mi guarda stranita, mi richiudo di nuovo la porta alle spalle senza che i Mongi si accorgano di nulla e riparto. Prometto di non raccontarlo a nessuno che mi sono dimenticata di prendere lo zaino, mi chiedo se scriverlo conta come raccontarlo oppure no. Mi rispondo di no. Per quello l’ho scritto.

colonna sonora: Pronti partenza via, Fabri Fibra

In cammino

Uno il crinale se lo immagina un po’ come la schiena di un gatto o la cresta di un’onda, una cosa lunga e sottile, che separa quello che c’è a destra da quello che c’è a sinistra. Quando cammini in montagna salire sul crinale è come arrampicarsi sull’albero maestro di una nave e da lì scrutare l’orizzonte. Noi ci siamo arrivati dopo tre ore di ascesa, dopo aver superato la linea dei boschi, quella dei prati e essere entrati in quella delle rocce, l’ultima prima del cielo. Da quando iniziano le rocce, la salita diventa una lunghissima scala verticale fatta di gradini irregolari, aspri e taglienti. Lo sguardo è puntato verso il basso, schiacciato dal peso dello zaino e attento a non inciampare. Ogni tanto tiri su gli occhi e guardi in alto, facendo un lungo respiro nell’aria rarefatta che si inizia a sentire sopra i 1700 metri. Il crinale sembra sempre lì, a un passo, e invece non ci si arriva mai. È una cosa strana come la vicinanza e la lontananza si relativizzano e si confondono in montagna. Poi a un certo punto, all’improvviso, senza che te lo aspetti, fai un passo e sei sulla schiena del gatto, sulla cresta dell’onda, in cima all’albero maestro. E da lì vedi il mare. 

Perché la magia fa sì che in quelle 72 ore di furore metereologico che ha accompagnato la nostra impresa, quando arriviamo sul crinale per la prima volta, nell’uniformità delle nuvole grigie si apre uno squarcio e spunta il cielo, un quadrato di cielo azzurrissimo e abbagliante, come sa esserlo il cielo di maggio.
Il vento soffia fortissimo, camminare dritti è faticoso, bisogna tenere le gambe salde per stare in equilibrio, combattere la furia del vento spingendogli addosso tutto il peso del corpo come se fosse un vecchio comò da spostare. 

I passi si susseguono lenti e pesanti, poi d’un tratto il vento strappa un altro squarcio nel cielo e spunta il mare. Il promontorio di Portovenere si allunga come un dito nel Mar ligure sotto di noi; stringendo gli occhi mi sembra di riconoscere il forno nella piazzetta dove ho mangiato la farinata l’ultima volta che sono stata da quelle parti. Mi stropiccio gli occhi, penso a un’allucinazione da calo di zuccheri, e invece è tutto vero: il mare sembra così vicino che mi viene voglia di scendere a fare il bagno. Lo dico a A. che però non sente; il vento disperde la voce all’istante, cattura le parole mentre per metà ce le hai ancora in bocca  e le risucchia in alto; dimentico il mare, riporto gli occhi a terra e mi ributto nell’impresa.

colonna sonora: Black Hole Sun, Soundgarden

Disvelamenti

Quando si fa fatica fisica i pensieri si semplificano, non si parla di massimi sistemi, non si fa filosofia. Tutto si riduce all’essenziale, non c’è spazio per l’astrazione, il mondo diventa solo quello che si può toccare. 

Mentre camminiamo, quando il vento non porta via la voce e la pioggia si dirada, quando la salita non è troppo ripida da togliere il fiato e il sentiero consente di stare affiancati, io e A. parliamo. 

Parliamo delle differenze nel modo di fare le polpette, della ricetta della strudel, di come si piega il bensone, della torta di pane e di cosa fare con il pane secco, di piccoli elettrodomestici, di limoni e carote, di prosciutto cotto e prosciutto crudo, di uova a pasta gialla e ravioli georgiani. Intanto sgranocchiamo frutta secca, cioccolata e barrette energetiche.

A. mi introduce anche al mirabolante mondo di Ali Express, il concorrente cinese di Amazon, il suo punto di riferimento assoluto per acquisti di ogni genere. Visto il contesto, mi recensisce in particolare i negozi cinesi che vendono attrezzatura da alpinismo – moschettoni, corde, imbraghi, picozze, chiodi e ramponi, tutti rigorosamente nominati in inglese-  ma anche roba per campeggiare in alta quota. Mi rassicura che con il suo corredo Ali Express saremmo al sicuro anche sull’Himalaya, mi descrive nei minimi particolari materiali, accorgimenti e caratteristiche del poncho che mi ha prestato, delle posate in titanio e di altri pezzi strabilianti della sua collezione. Noto che ha scritto “sitton” dappertutto e che su tutto il possibile ha attaccato un cordino, facendo piccoli fori con trapani o punteruoli e si è così legato vari aggeggi alla cintura o allo zaino con nodi sottili di grande raffinatezza: un orologio senza cinturino, una micro torcia, un coltello enorme, la bussola, un bicchiere, il sacchettino del pronto soccorso, un fischietto. Racconta di tutto con la precisione del chimico e la curiosità dell’esploratore, con una vena di romanticismo nascosto che lo starei ad ascoltare per ore. È felicemente fiero, si vede anche in mezzo alle nuvole. 

Parlare di ricette di cucina e consumismo made in China mentre camminavamo sotto l’acqua e il vento del crinale appenninico mi è piaciuto moltissimo. Sono entrata dentro l’anima della montagna e ho toccato la sua roccia interiore. Ho capito anche come si fa a chiudere il bensone. Certe cose si capiscono solo in certi momenti.

colonna sonora: Common People, Pulp  

Epica appenninica

A scanso di equivoci, questo non è un manuale tecnico per chi vuole imparare ad andare in montagna e nemmeno un prontuario di consigli su cosa mettere nello zaino, non è neanche un trattato filosofico di chi dopo essere stato in montagna ha capito tutto di come si sta al mondo e, spinto da una forza sconosciuta e irresistibile, inizia a dispensare consigli filosofici sulla vita e sulla morte su YouTube o su Istagram. Forse è più simile a una raccolta di  immagini, nate da momenti qualsiasi e pensieri a metà fronte. 

L’epica delle cose senza epica, la si potrebbe chiamare. Quella capace di trasformare un’impresa che non ha niente di eroico in un’esperienza unica ed eccezionale e di dare una potenza pazzesca alla natura minore dell’Appennino dietro casa. Lontano dal clamore alpino e dalla retorica delle vette inviolabili.

In questa epica appenninica ci sono i nomi – monte matto, monte bursa, monte dell’uomo morto, passo della pietra tagliata, monte acuto, la nuda, il gendarme – che ritmano il nostro incedere pesante; ci sono i bivacchi – bui e freddissimi, di una commovente e spoglia accoglienza; ci sono i guadi – troppi e irruenti e rumorosi e arrabbiati e schiumosi e bagnati, molto bagnati; e poi ci sono le provette, quelle del laboratorio di analisi chimiche dove lavora A., riempite una con lo zucchero, una col caffè, una con l’olio e una con il sale, una di amaro al rabarbaro e una di semi di girasole, impettite come una fila di soldati in divisa; ci sono anche le graffette metalliche da ufficio, che A. mi insegna ad usare per fissare i copripantaloni da pioggia ai lacci degli scarponi e tenerli ben fermi; non ci sono i cellulari, che non prendono mai, come se avessimo oltrepassato le Colonne d’Ercole e ci trovassimo nel Nulla della Storia Infinita, dove la cosa che fa più rumore è il silenzio; non ci sono uomini e neanche animali sui nostri sentieri; ci sono però barrette energetiche in abbondanza, dolci o salate, gelatinose o croccanti, antiossidanti o proteiche, rosse o marroni, lisce o granulose, che basta un morso per non sentire più la fatica. Perché crederci è la cosa più importante.

colonna sonora: Lose Yourself, Eminem ​​ 

 

Epilogo

Le imprese sono più imprese se non si finiscono. 
Non so se lo ha detto qualcuno di famoso, forse no, ma comunque penso sia vero.

Al Lago santo modenese io e A. non ci siamo arrivati, abbiamo abbandonato un giorno prima. 
Troppa acqua, troppo vento, troppe nuvole e previsioni troppo brutte per continuare. 

Non essere arrivati in fondo è, nel linguaggio eroico delle imprese epiche, una sconfitta, una ritirata; nel nostro caso è stato letteralmente un “correre ai ripari”. 

Non finire però equivale anche a non mettere la parola fine. È il non finito che apre le porte all’infinito. Lascia uno spazio, produce uno strano movimento e mentre le gambe si riposano sul divano la testa corre sul crinale e i pensieri sono tutti lassù.

C’è stato un momento, mentre attraversavamo in silenzio grandi prati inzuppati di acqua avvolti in una nebbiolina bagnata che sfumava i contorni del paesaggio intorno, che A. d’un tratto, senza preavviso, si ferma e mi dice: Te lo ricordi il Colombre?. Gli ho risposto che sì, me lo ricordavo. Una conversazione di dieci secondi. Poi abbiamo ricominciato a camminare in silenzio. Non mi sono attentata a dirgli che proprio in quel momento stavo pensando anch’io al Colombre.

NB: Il Colombre è un racconto di Dino Buzzati pubblicato nel 1966. Si trova anche online, è piuttosto corto, e chi non sa cos’è un colombre può andare a leggerlo.

colonna sonora: La profondità degli abissi, Manuel Agnelli 

Post Scriptum: questa storia è iniziata l’8 maggio 2023, data in cui ho scritto il prologo, ed è finita il 20 maggio 2023, quando siamo tornati a casa. Abbiamo iniziato a camminare giovedì 18 maggio alle 9 di mattina dal parcheggio del Lagdei nell’Appennino parmense e abbiamo finito 58 ore dopo a Ligonchio. È stato bello.

A Modena ci sono 1655 strade

Di queste, 850 sono dedicate a personaggi maschili e 35 a personaggi femminili.
Che tradotto in percentuale vuol dire che il 51% delle strade di Modena sono intitolate a uomini e il 2% a donne.

La prima strada che è stata intitolata a una donna risale al 1932. 
La donna in questione è Enrichetta Castiglioni, patriota morta a 29 anni, esattamente un secolo prima dell’anno in cui le è stata dedicata la strada.

La poetessa Alda Merini, la parlamentare e prima donna a presiedere la Camera dei Deputati Nilde Iotti e Felicia Bartolotta, mamma di Peppino Impastato simbolo della  lotta alla mafia, sono le ultime figure femminili a cui – nel 2021 – è stata intitolata una strada. Sono finite tutte e tre vicine, nel nuovo quartiere residenziale di Vaciglio, anche se penso che avrebbero preferito finire da un’altra parte, visto che la radicalità di queste donne cozza con l’operazione immobiliare più discutibile e discussa della città.

Se si esclude Matilde di Canossa e una pittrice del Settecento di nome Rosalba Carriera non ci sono personaggi femminili vissuti prima del XVIII secolo a cui è stata intitolata una strada. 

Tra le 35 donne che hanno una loro strada ci sono 5 poetesse; 3 scienziate; 3 partigiane e 4 scrittrici: Grazia Deledda e Sibilla Aleramo che sono nate a un anno di distanza negli anni Settanta dell’Ottocento e Elsa Morante e Natalia Ginzburg nate a inizio Novecento, sempre a un anno di distanza l’una dall’altra. Nello stradario Natalia Ginzburg è parallela a Sibilla Aleramo e le due strade sono chiuse da Montale a nord e Ungaretti a sud.

C’è anche la dottoressa del Policlinico che curava mio fratello quando era piccolo. 
L’ho scoperto per caso un giorno che ero andata a correre fuori dalle mie solite zone e quando ho visto l’insegna con il suo nome mi è venuto freddo anche se era estate. Mi è venuta anche una gran sete e d’istinto ho corso fino al santuario di San Geminiano per bere l’acqua della sua fonte che si dice sia miracolosa. 

Poi però a casa ci sono tornata camminando, attraverso tantissime strade con nomi maschili e pochissime strade con nomi femminili.

colonna sonora: Where the streets have no name, U2

PS: grazie a GB per la consulenza statistica

Dida: Cesare Leonardi, Autodromo di Marzaglia, Modena 1989-1990, stampe fotografiche in sequenza di un disegno di studio della pista ripreso di sguincio

Ieri sera mi sono messa il maglione che mia ha regalato mia nonna Giuseppina per il Capodanno dei miei 16 anni.

Mia nonna Giuseppina è nata in una casa di Cà di Giovannone sull’appennino bolognese nel 1908. Sua mamma Caterina è morta per un’infezione a una gamba quando lei era piccola, suo papà Federico era molto buono e le ha insegnato a guardare le pecore, suo fratello Alberto era nato nel 1899 e appena ha compiuto diciotto anni lo hanno mandato a combattere nella prima guerra mondiale; non è morto ma è diventato pazzo, l’ho capito che ero ancora piccola da come guardava dentro il bicchiere di vino seduto al bancone del bar del paese. Lì dentro vedeva solo il vino e la sua mente dilaniata finalmente trovava pace. Per ultimo c’era Lupo, un cane lupo di cui mia nonna mi ha sempre parlato come se fosse un uomo. E così io me lo immagino ancora.

Mia nonna ha smesso di andare a scuola a otto anni per occuparsi delle pecore. Le portava al pascolo sull’Alpe, con Lupo e un cartoccio di pane e formaggio. Tre volte a settimana faceva dodici chilometri a piedi a andare e dodici chilometri a piedi a tornare per andare a imparare a cucire da una signora che viveva su una montagna vicino. Quando è diventata più grande  si è trasferita a Firenze, a casa di una ricca famiglia di mercanti di stoffe per cui faceva la cameriera e dove ha imparato a cucinare con l’Artusi. Si è innamorata di mio nonno un giorno che sono andati insieme a raccogliere le fragoline di bosco e prima di riuscire a sposarsi e trasferirsi a Modena sono stati lontani per dieci anni, scrivendosi centinaia di lettere in cui, oltre a fatiche quotidiane e promesse d’amore, si davano appuntamenti un mese per l’altro per vedersi in una qualche stazione dei treni ad una qualche ora di un qualche giorno. Le avrei chiesto volentieri se davvero in quel modo erano riusciti a incontrarsi, ma le lettere le ho trovate che mia nonna era già morta e mio nonno non l’ho mai conosciuto perché è morto prima che nascessi. 

Il Capodanno dei miei 16 anni l’ho festeggiato sulle montagne dove è nata mia nonna e me lo ricordo come uno dei giorni in cui mi sono sentita meglio di tutta la mia adolescenza.
Non so se il maglione c’entra qualcosa. 

È un maglione sottile, di lana misto poliestere come andava negli anni Novanta, nero con qualche filo marrone chiaro che entra e esce e gli dà un effetto tipo caffè macchiato. 
Me lo metto con regolarità da trent’anni e tutte le volte penso a mia nonna, che quando me l’ha regalato aveva 84 anni e non usciva più di casa, neanche per andare a messa, e invece per comprare quel maglione era uscita.
L’ho usato così tanto che dovrebbe essersi disintegrato, invece fa ancora la sua figura e capita che qualcuno me lo ammiri anche. Penso che il poliestere abbia avuto un peso nel buon mantenimento del maglione e questa considerazione mi ha reso più tollerante verso la plastica e gli altri derivati del petrolio: il fatto che non ce ne sbarazzeremo mai mi comunica  un senso di eternità che mi fa sentire mia nonna più vicina. 

Mia nonna è morta il 29 dicembre del 1999, due giorni prima del Capodanno del 2000, quello che non solo ha chiuso un secolo ma anche un millennio. Ho sempre pensato che non sia stato un caso. Lei voleva rimanere dentro il tempo a cui apparteneva e la sua parentesi si è chiusa in armonia con quello che desiderava. 

PS:
Questo è un post fatto di parentesi.
Le parentesi mi sono sempre piaciute. 
Mi abbracciano e mi assomigliano. 
Aprono e chiudono.
Aprono cose già chiuse e chiudono cose ancora aperte.
Non saprei cosa augurare e augurarmi di meglio per il 2023.
Buone parentesi a tutti.

colonna sonora: Changes, David Bowie

221222

Telefono cellulare, sasso dell’isola d’Elba, tratto pen nero, estate 2012

Stasera mi sono sdraiata sul tatami di fianco a lui, già mezzo addormentato, e gli ho detto all’orecchio che avevo smesso di lavare i piatti per dargli l’ultimo bacio degli undici anni prima che si addormentasse del tutto. 
E lui che ai baci è sempre stato allergico, quel bacio sembrava che lo aspettasse da undici anni e voleva che continuassi a dargli dei baci fino a mezzanotte, quando non sarebbe più stato tempo per i baci degli undici anni. Perché a quel punto di anni ne avrebbe avuti dodici.

E a dodici anni, si sa, è tutta un’altra cosa. A dodici anni si diventa più grandi di quanto si era anche solo un giorno prima (e su questo non ci sono dubbi). 

E nonostante certe cose non cambino mai:

. il cervello matematichino
. e un cuore da Gesù Bambino
. un po’ Capricorno (in quanto a testa dura)
. un po’ Sagittario (per il tuo amore per l’avventura)
. la tua allergia ai baci (sapessi quanto mi piaci)
. l’amore incondizionato per la palla
. e la voglia di coccole prima di fare la nanna
. i tuoi lunghi e biondi capelli che nessuno li ha più belli
. e infine i tuoi piedini cicciotti che me li mangerei con gli occhi (*),

a dodici anni cambia tutto. Perché da oggi il-Giovi-del-mio-cuore sarà dotato di telefono cellulare, entrando a tutti gli effetti in quel mondo virtuale che anni di “guai alla televisione, allo zucchero e ai videogiochi e solo giochi di legno, latte di soia, gomitoli di lana” non sono riusciti a rendere meno reale e quotidiano di quanto non sia per davvero.

Che quando siamo andati in negozio a sceglierlo – perché nel mondo virtuale le sorprese non esistono – mi ha detto che era il giorno più bello della sua vita. E io, da mamma biologica&antitecnologica ho pensato di aver capito male e gli ho chiesto se gentilmente poteva ripetere quello che aveva appena detto, così adesso posso dire con certezza che il giorno più bello della vita del-Giovi-del-mio-cuore coincide con quello in cui siamo andati a comprare il suo telefono cellulare. 

Gli accordi erano che lo avrebbe iniziato a usare dai dodici anni, senza deroghe e condoni. Però quando siamo tornati a casa lo abbiamo aperto un attimo per vedere se funzionava.
Riporto l’esito della prova di funzionamento, che in tutto sarà durata meno di un minuto:

Fa piccoli saltelli veloci come se il mondo fosse un enorme tappeto elastico, mentre i capelli vanno su e giù e le sue mani cicciotte battono una contro l’altra al ritmo dei saltelli.
Salta e ripete “Che bello Che bello Che bello” in un loop di felicità fanciullesca. 
Gli ho appena risposto al telefono, il suo telefono. 
È la prima telefonata che fa, con il suo telefono.
Io sono in camera da letto, lui è in cucina.
Ci separano sei metri scarsi e una porta semiaperta. 
Mi ha avvisato con un urlo che mi avrebbe chiamato.
Sento il telefono squillare. 
Gli rispondo con un urlo che mi sta chiamando.
Mi urla ancora di rispondere.
Rispondo.
Ciao mamma – mi dice con la voce che vorresti sempre sentire quando rispondi al telefono – sono felice. 
Poi mette giù. 
Non l’avrei pensato, ma sono felice anch’io.

colonna sonora: All of Me, John Legend 

(*) estratto del suo biglietto di compleanno di tre anni fa

Stamattina (che poi era domenica) sono tornata in cucina (ero in terrazzo, che non c’è niente di meglio di un terrazzo in queste tiepide mattine d’ottobre) a prendere un’altra tazza di te, bevanda che scandisce le mie giornate con regolarità svizzera, incurante delle stagioni (nessun calo nei consumi estivi, complice anche la mia buona resistenza al caldo e la mia scarsa sudorazione) e della qualità (che nonostante la varietà più o meno esotica e più o meno pregiata contenuta nei tanti sacchettini e barattolini sparsi tra i vari mobiletti e mensoline della cucina, vede la classica bustina di te da colazione da supermercato in cima alla mia personale “classifica dei più bevuti”).

Eravamo a stamattina, quando sono entrata in cucina con in mano la tazza ormai vuota ma ancora tiepida al tatto e mi sono avvicinata al fornello dove di solito troneggia tronfia e luccicante in primo piano la teiera metallica compagna di tante avventure.

Come quando si fanno le cose senza pensarci, tanto sono entrate nel nostro cervello a forza di ripeterle, ho appoggiato la tazza sul piano della cucina, alzato circa all’altezza della spalla il braccio sinistro e stretto la mano intorno al manico della teiera. Che però non c’era, mandando a vuoto la mia presa sicura. Dopo un attimo di smarrimento dovuto all’inaspettato inceppo di una routine granitica oliata in anni di repliche plurigiornaliere, mi sono girata di 180 gradi convinta di trovare la teiera sul tavolo, cosa che effettivamente ogni tanto capita, soprattutto quando qualcuno ci regala un mazzo di fiori che viene messo in bella vista in un vaso al centro del tavolo di cucina e vicino al quale, non so per quale misteriosa ragione, alla fine qualcun altro mette anche la teiera metallica, costruendo una perfetto connubio estetico tra fiori e metallo che sarebbe da fotografare sempre, ma che non si può non fotografare quelle volte che tra l’uno e l’altro (fiori e metallo) si posiziona il gatto, che assume in quelle circostanze un’espressione e una posizione come di uno che non aspetta altro che farsi fotografare.

Tornando alla rotazione di 180 gradi, la teiera però non era neanche sul tavolo di cucina, cosa che ha esasperato il mio smarrimento trasformandolo in apprensione, che a sua volta si è manifestata in una serie di rapidi movimenti degli occhi e di collegate rotazioni del busto per ispezionare la stanza in ogni suo angolo alla ricerca della teiera perduta. 

Ma niente, della teiera nessuna traccia, nonostante dalla finestra entrasse un deciso raggio di sole che, a rigor di fisica, il metallo della teiera avrebbe dovuto catturare e riflettere scomposto sulle pareti della cucina in una miriade di luccichini degni delle migliori lampade stroboscopiche (che rimangono uno dei motivi più validi per frequentare le discoteche. O almeno lo erano negli anni Novanta, perché oggi a dire la verità non lo so se in discoteca ci sono ancora le lampade stroboscopiche).

Saranno passati 120 secondi (che possono essere molto di più di 2 minuti) in questa febbrile e scomposta ricerca senza esito. Sono anche uscita e rientrata dalla stanza per vedere se casomai avessi inavvertitamente portato la teiera in terrazzo o da qualche altra parte perché magari ero andata a fare qualcosa senza rendermi conto di avere la teiera in mano e poi l’avessi lasciata lì mentre facevo la cosa che dovevo fare (ad esempio aprire la finestra della camera da letto, lavarmi i denti, far partire la lavatrice, prendere un fazzoletto da naso o simili) e finito di fare la cosa me la fossi dimenticata dove l’avevo appoggiata. 

Ma ancora niente, la teiera sembrava essersi smaterializzata, mentre intorno alla sua evanescenza si materializzava secondo dopo secondo un’ansia densa e pastosa che poi tutto d’un tratto (suspense) si è trasformata in profondo sconforto quando mi sono accorta che la teiera era, in tutto il suo metallico bagliore, regalmente posizionata sul fuoco subito dietro quello dove normalmente sta e dove io la cercavo vanamente. Stesso asse, 15 centimetri di distanza da dove il mio occhio si era fermato, nessun interferenza visiva a bloccare lo sguardo, solo un blocco mentale, dato dall’abitudine di fermarsi al primo fuoco perché di solito è lì che si trova la teiera. 

E continuando la catena di emozioni iniziata con lo smarrimento di cui sopra, il profondo sconforto è precipitato in una paura ancora più profonda, pensando a cosa succederà quando l’inevitabile invecchiamento neuronale renderà il cervello sempre meno in grado di liberarsi dai suoi automatismi e di vedere le cose come stanno e non come pensiamo che siano. Perché se è bello vedere quello che gli altri non vedono (l’essenziale è invisibile agli occhi, diceva la volpe al Piccolo Principe, anche se non so se qui c’entra), non  è altrettanto bello non vedere quello che tutti vedono (avendocelo davanti agli occhi).

PS: post eccessivamente cervellotico, piacevole come il singhiozzo, che pubblico solo per la colonna sonora che merita l’ascolto. 

colonna sonora: Pennyroyal Tea, Nirvana

Qualche mese fa ho mandato il mio romanzetto, che poi non so neanche se si possa definire così una storia che qualcuno ha scritto (in questo caso io) che però nessuno ha mai pubblicato e di conseguenza pochissimi letto, a un concorso “riservato alle scrittrici esordienti e volto a facilitare l’accesso delle donne alla professione di scrittrice” (argh!, Elsa Morante non avrebbe mai potuto essere  in giuria!) E anch’io quando ho letto il bando ho pensato che a una roba del genere non avrei mai partecipato, non fosse altro che per l’ambientazione da riserva indiana (solo femmine) che proprio non sopporto. 
Però i giorni successivi non potevo fare a meno di pensare che anche se non mi sarei mai definita una scrittrice (anche solo per quella declinazione femminile che tanto faceva imbestialire l’Elsa di cui sopra) non potevo non riconoscere che quel romanzetto che avevo appena finito era la cosa più femmina che avessi mai fatto in vita mia e che questo non potevo ignorarlo. In più il bando chiedeva di accompagnare l’invio del romanzo a un “breve testo di non oltre 1800 battute su una figura pubblica di donna che appartiene alla tua storia e che vuoi segnalare all’attenzione delle altre donne” e a me davvero era successo che mentre scrivevo il romanzetto mi girava in testa una donna che tipo grillo parlante mi è stata vicino e mi ha raddrizzato quando perdevo la strada e che questo era stato fondamentale per me ma ancora di più per il romanzetto e che quindi un riconoscimento a questa donna ispiratrice glielo dovevo e il bando poteva essere l’occasione e forse a pensarci bene non era un caso che lo avessi scoperto del tutto per caso.
Così, noncurante dei requisiti obbligatori del bando che ammettevano solo “opere comprese tra le 200.000 battute (spazi inclusi) e le 600.000 battute (spazi inclusi)”, tormentata da quella precisazione sugli spazi inclusi che non ho mai capito fino in fondo (come del resto il meccanismo dei fusi orari e il funzionamento della fotosintesi clorofilliana), dopo aver provato ad allungare il mio testo per raggiungere il limite minimo (presente la storia di Cenerentola e della scarpetta di cristallo?), ho inviato con tutti i crismi del caso il romanzetto, che da quel momento è diventato “etto” per il fatto di pesare solo 146.801 battute spazi inclusi, con l’incognita se quelle 53.199 battute mancanti sarebbero state un incentivo per i giurati a leggere, per il fatto di dover leggere di meno, o al contrario un divieto a leggere, per il fatto di non rispettare i requisiti del bando. Insomma, un dibattito con venature filosofiche tra obbedienza acritica e opportunismo fancazzista che da secoli dilania l’umanità e che è rimasto irrisolto anche nel caso del romanzetto perché, pur avendo saputo ufficialmente che non è tra i finalisti, non sono riuscita a sapere se è stato letto o meno. E la cosa che mi tormenta ancora di più è che questa incertezza di lettura coinvolge a cascata anche le 1800 battute sulla mia donna ispiratrice, allegato obbligatorio e intimamente connesso all’invio del romanzetto, mentre almeno queste vorrei proprio essere sicura che fossero state lette, visto che le ho scritte come una specie di ringraziamento per la mia donna grillo parlante, come fossero un mazzo di fiori, e per risolvere la questione ho pensato che le pubblico qui:

NATALIA GINZBURG mi è sempre piaciuta. Anche da ragazzina, perché mi ricordava Winona Ryder, sarà il taglio dei capelli. Lessico famigliare poi usciva spesso a cena dalla bocca di mia madre, che ha una memoria letteraria sconfinata e ancora adesso riesce a tirare fuori citazioni di quello o quell’altro libro con la stessa leggerezza con cui gira il mestolo nella pentola. Alla nostra tavola sbrodeghezzi e potacci erano all’ordine del giorno, ragion per cui la Ginzburg vi troneggiava come il tacchino ripieno il giorno del ringraziamento. 
Lessico famigliare l’ho letto che avrò avuto 16 anni e sono rimasta stregata: dai personaggi, dalla loro casa e dalla scrittura della Ginzburg, asciutta, tesa e appuntita come la sua faccia. 
Un’altra cosa che mi ha fatto sentire da subito vicino alla Ginzburg è il suo cognome, che come il mio finisce in consonante, in un Paese dove basta che manchi una vocale finale perché la gente ti guardi storto. 
Natalia l’ho poi rincontrata all’università, quando, per cercare di fare pace con una laurea in Economia che non mi ha mai calzato bene, ho deciso che avrei chiesto la tesi a suo figlio, Andrea Ginzburg, che a conti fatti è stata la persona che più mi ha insegnato a scrivere, con poche parole e grande serietà.
Qualche anno fa a Modena, la città in cui abito, a Natalia Ginzburg le hanno intitolato una via. È il lato corto di un triangolo rettangolo di strade costruite intorno ad alcune vecchie officine trasformate qualche anno fa in uffici e ambulatori. Non è un bel posto ma mi capita spesso di passarci in pausa pranzo perché è proprio dietro a dove lavoro. Il lato lungo è Montale, l’ipotenusa Ungaretti e l’altezza Sibilla Aleramo. 

Colonna sonora: 26000 giorni, Vasco Brondi (dal minuto 2)

Sadoleto Quarantine

Il Dondolo editore ha pubblicato il mio “Sadoleto Quarantine. Puntate molto corte per giornate molto lunghe”, diario ironico e disperato dei 21 giorni di clausura forzata che toccano a chiunque si becchi il Covid. Giorni al rallentatore, che ti fanno sentire chiuso fuori (pur essendo chiuso dentro) dal resto del mondo: lo vedi girare intorno a te, il mondo, ci sei dentro, non ci sono dubbi, ma non giri. Sei fermo. Ti hanno messo in pausa. Si può scaricare gratuitamente qui: https://emilib.medialibrary.it/media/scheda.aspx?id=850648539

PS: in copertina Albert Samson, “Caselle”, 2017, smalto su tela, 30×40 cm. Collezione Mongiorgi.

Ho vinto del tempo, mettiamola così.

Un tempo inaspettato, tutto per me, senza interferenze umane.

Silenzio intorno, irreale perché sono in casa, dove normalmente non c’è mai silenzio.

Ma di normale c’è poco adesso.

Essere positivi non ha niente di positivo.

Scatta l’isolamento immediato. Roba da criminali veri. Mica ladri di polli.

E per fortuna che qui al Blocco di Sadoleto (cit.) abbiamo due appartamenti vicini.

Uno per i positivi, l’altro per gli altri.

Si vive con le finestre aperte, anche a novembre (benedetta estate di San Martino!)

Ci possiamo vedere dalla finestra, i positivi e gli altri. Un lusso raro, di questi tempi (guardare ma non toccare, è la regola)

Quando viene buio (presto) (c’è l’ora solare, remember!) ci parliamo al telefono. La voce si sente con l’eco, perché passa nel telefono e anche attraverso i muri. Come i fantasmi. 

Ci separa solo un pianerottolo d’altronde. Basta un pianerottolo per scongiurare il contagio! (Più pianerottoli Meno vaccini direbbe qualcuno)

Sul pianerottolo mi lasciano il vino, una fetta di torta, la vitamina D, bigliettini con cuori e altri messaggi di affetto. Niente più bigliettini con la lista della spesa. Solo affetto. E vino.

colonna sonora: Penso positivo, Jovanotti